Dove appena qualche mese l’ingresso era possibile soltanto tramite accredito o visto della polizia, ieri mattina c’erano solo due cronisti per la requisitoria del pm Remo Epifani nel processo per i 250 milioni di euro di Boc contratti nel 2004 dal Comune di Taranto con l’allora banca Opi: 250 milioni di euro, un quarto del buco procurato al Comune di Taranto da giunte di centrodestra, tanto da portare nel 2006 alla dichiarazione di dissesto per un miliardo di euro, il dissesto più grande d’Italia.
Nell’aula dedicata al giudice Emilio Alessandrini, ucciso dai terroristi rossi il 29 gennaio del 1979 a Milano, e solitamente riservata ai processi della corte d’assise come quello per morte di Sarah Scazzi, teletrasmesso in mondovisione, era plastica la rappresentazione della oraziana molle tarentum. Il poeta era innamorato della città dei due mari e si inebriava nelle sue onde calme, placide. Molli, appunto. L’accezione molle tarentum era insomma positiva ma la consuetudine ormai secolare restituisce un altro significato, ovvero che la città di Taranto si affloscia nel giorno in cui dovrebbe invece essere protagonista.
Nell’aula Alessandrini ieri mattina non c’era nessuno, a parte gli addetti ai lavori, la tribunetta riservata al pubblico era desolatamente deserta, e così il dottor Remo Epifani, titolare delle principali inchieste sul Comune di Taranto quando l’ente (2000-2006) era guidato dal sindaco Rossana Di Bello (Forza Italia), non ha potuto non cominciare la sua discussione con il rammarico per quel deserto, per quell’indifferenza verso una vicenda che pure ha avuto un ruolo fondamentale sulla città e i suoi cittadini. Perché Taranto è sicuramente la città del caso Ilva, dei veleni emessi dagli impianti dell’area a caldo, dell’attenzione con la quale il Governo e altri poteri forti guardano al futuro dello stabilimento siderurgico, ma è anche la città delle tasse salite al massimo per far fronte ai debiti miliardari accumulati dal Comune, dei servizi ridotti al minimo, degli asili chiusi, dei cantieri bloccati per assenza di liquidità, dei contratti integrativi disdettati, dei concorsi pubblici bloccati sine-die malgrado le evidenti lacune di organico, specie tra i vigili urbani. Il prezzo del dissesto viene pagato ancora oggi da tutti i tarantini, impegnando, malgrado gli anni trascorsi, una parte consistente del bilancio comunale e dunque limitando il raggio d’azione dell’ente. Ma sembra tutto vecchio, una storia passata, archiviata, finita nel dimenticatoio.
Certo, i tempi della giustizia non aiutano quasi mai la memoria e non accendono la passione popolare, visto che il trascorrere degli anni non solo ha portato ormai alla seconda legislatura Stefàno, il sindaco di sinistra eletto a furor di popolo nel 2007 e confermato nel 2012, ma rischia di far finire tutti i processi sull’era-Di Bello in prescrizione. Ma Taranto anche quando la scansione degli atti giudiziari è stata più immediata, vicina alle pulsioni dei tarantini come l’esplosione del caso Ilva e i suoi sequestri, arresti, verbali, intercettazioni, è mancata agli appuntamenti. Il flop del referendum consultivo del 14 aprile scorso sulla proposta di chiusura dell’area a caldo dell’Ilva e la partecipazione alle manifestazioni anti-siderurgica di una minoranza, rumorosa autorevole e spesso dotata di argomenti convincenti ma sempre minoranza, restituiscono in maniera efficace l’immagine della «molle e imbelle Tarentum» tratteggiata da Orazio oltre 2000 anni fa. Allora era molle e imbelle perché da tanto tempo non faceva più guerre ed era diventata addirittura luogo di villeggiatura. Oggi lascia finalmente, ma di poco, l’ultimo posto nella classifica della qualità della vita, ma continua a farsi scivolare tutto (e tutti) addosso, tra menefreghismo (il classico ce me ne futt’a mme?) e, forse, rassegnazione.

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