mercoledì 20 novembre 2013

Vendola: il decreto Ronchi non bloccò la diossina Ilva

A leggere bene le carte, gli allegati che il presidente Vendola ha consegnato all’aula consiliare, c’è da rabbrividire. Per oltre 15 anni, a quanto ci è dato sapere, ovvero dalla fine degli anni ‘80 al 2009 - quando fu approvata la legge regionale che obbligava l’Ilva alla riduzione delle emissioni - la diossina non è stata mai considerata un problema, nè per lo Stato, nè per l’Ue, nè per le autorità competenti. E, inspiegabilmente, è stato consentito a tutte le fabbriche d’Italia (compreso il più grande complesso siderurgico d’Europa) di emettere dai propri agglomeratori (nel caso specifico, i camini che bruciano il coke) ben 10.000 nanogrammi per metro cubo, negli stessi anni in cui si obbligavano gli inceneritori di rifiuti a scendere a 0,1 nanogrammi per metro cubo. Chissà perché, anche per l’Ue - che emise una direttiva in materia nel ‘94 - la diossina prodotta dai rifiuti che bruciavano fosse più pericolosa di quella prodotta dal coke. E chissà perché, nel ‘97, l’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi (oggi sub-commissario per l’ambientalizzazione dell’Ilva) emise il decreto che porta il suo nome (insieme a quello di Bindi e Bersani) con cui estendeva agli inceneritori di rifiuti urbani il tetto di emissioni di 0,1 nanogrammi, ma lasciava invariato a 10.000 nanogrammi la diossina prodotta dalle industrie.

Quel tetto, disastroso se si considerano gli accertati effetti sulla salute dei tarantini, rimarrà inviarato sino al 2009 e nemmeno col Codice dell’Ambiente (approvato nel 2006) lo Stato si pose il problema di applicare le stesse unità di misura (tossicità equivalente) degli inceneritori e ai camini. Si arriva così al 2009, quando il consiglio regionale pugliese adotta il tetto di 0,4 nanogrammi a metro cubo con una progressiva discesa a 0,1 e l’adeguamento di tutti gli impianti della fabbrica più inquinante d’Italia. Nel frattempo, in tutti quegli anni, ai «signori dell’acciaio» era stato sufficiente applicare la legge per mantenere inviarati i livelli produttivi e finanche le modalità di produzione. Perché alle lacune normative si sono aggiunte quelle dei controlli, del monitoraggio che avrebbe dovuto verificare negli anni le emissioni di benzo(a)pirene. Uffici dell’Asl reticenti a diffondere le rilevazioni sulla sicurezza in fabbrica e dirigenti aziendali restii ad osservare le prescrizioni che pure erano state diramate (l’annaffiamento dei parchi minerari per ridurre le emissioni di polveri sottili), in modo da non rallentare l’efficacia degli impianti.

Questo il quadro. Soprattutto, un’Agenzia regionale per l’Ambiente, l’Arpa, sguarnita del necessario personale e con un’organizzazione delle forze in campo a dir poco paradossale. Siamo nel 2003, l’Agenzia istituita qualche anno prima è guidata da un direttore generale - Alfredo Rampino - parente dell’allora governatore Fitto e oggi indagato in qualità di direttore amministrativo dell’Asl Brindisi per i fatti del 2007. Ebbene, l’Ar pa conta su una pianta organica di 832 unità e non si capisce perché nella città più industrializzata della Puglia, Taranto, vi è la sede con minor personale: 30 addetti a fronte 61 in forza a Bari, dei 55 presenti rispettivamente su Brindisi e Foggia e dei 57 operanti su Lecce. L’Ilva, da 40 anni attiva con 200 camini, era solo obbligata ad autodichiarare i dati sulle emissioni (con i tetti altissimi di cui abbiamo già scritto), dunque - a leggere il dossier di Vendola - almeno sino al 2005 di quei fumi che avvolgono Taranto non si è mai saputo nulla. Nel 2005 all’Arpa viene data una «sterzata»: arriva Giorgio Assennato, già a capo del Registro Tumori, istituito nel ‘99 nell’area jonico-salentina e nel corso degli anni successivi esteso a ciascuna provincia per renderlo regionale.

Ebbene, già ai primi anni di attività di ricerca - pur in assenza di rilevazioni ufficiali, come detto - Assennato forniva le stime sulle incidenze tumorali nelle aree considerate a rischio ambientale (Brindisi e Taranto). Ma dovranno passare un po’ di anni perché arrivino le prime leggi sulla riduzione delle emissioni (quella del 2009) e, nel 2012, sulla valutazione del danno sanitario. Soprattutto, ci vorrà l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura per accendere i fari sulla mortalità a Taranto per inquinamento. «Mi piacerebbe che una Autorità scientifica e giuridica indipendente potesse fare un’analisi della legislazione pugliese - ha detto Vendola nell’Au l a consiliare - in comparazione con le altre legislazioni regionali e con quella nazionale». Sarebbe utile, ma nessuno potrebbe tornare indietro nel tempo per sanare tutte le lacune che hanno provocato in Puglia la mortalità ambientale.lagazzettadelmazzogiorno

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