A leggere bene le carte, gli allegati che il presidente Vendola ha
consegnato all’aula consiliare, c’è da rabbrividire. Per oltre 15 anni, a
quanto ci è dato sapere, ovvero dalla fine degli anni ‘80 al 2009 -
quando fu approvata la legge regionale che obbligava l’Ilva alla
riduzione delle emissioni - la diossina non è stata mai considerata un
problema, nè per lo Stato, nè per l’Ue, nè per le autorità competenti.
E, inspiegabilmente, è stato consentito a tutte le fabbriche d’Italia
(compreso il più grande complesso siderurgico d’Europa) di emettere dai
propri agglomeratori (nel caso specifico, i camini che bruciano il coke)
ben 10.000 nanogrammi per metro cubo, negli stessi anni in cui si
obbligavano gli inceneritori di rifiuti a scendere a 0,1 nanogrammi per
metro cubo. Chissà perché, anche per l’Ue - che emise una direttiva in
materia nel ‘94 - la diossina prodotta dai rifiuti che bruciavano fosse
più pericolosa di quella prodotta dal coke. E chissà perché, nel ‘97,
l’allora ministro dell’Ambiente Edo Ronchi (oggi sub-commissario per
l’ambientalizzazione dell’Ilva) emise il decreto che porta il suo nome
(insieme a quello di Bindi e Bersani) con cui estendeva agli
inceneritori di rifiuti urbani il tetto di emissioni di 0,1 nanogrammi,
ma lasciava invariato a 10.000 nanogrammi la diossina prodotta dalle
industrie.
Quel tetto, disastroso se si considerano gli accertati effetti sulla
salute dei tarantini, rimarrà inviarato sino al 2009 e nemmeno col
Codice dell’Ambiente (approvato nel 2006) lo Stato si pose il problema
di applicare le stesse unità di misura (tossicità equivalente) degli
inceneritori e ai camini. Si arriva così al 2009, quando il consiglio
regionale pugliese adotta il tetto di 0,4 nanogrammi a metro cubo con
una progressiva discesa a 0,1 e l’adeguamento di tutti gli impianti
della fabbrica più inquinante d’Italia. Nel frattempo, in tutti quegli
anni, ai «signori dell’acciaio» era stato sufficiente applicare la legge
per mantenere inviarati i livelli produttivi e finanche le modalità di
produzione. Perché alle lacune normative si sono aggiunte quelle dei
controlli, del monitoraggio che avrebbe dovuto verificare negli anni le
emissioni di benzo(a)pirene. Uffici dell’Asl reticenti a diffondere le
rilevazioni sulla sicurezza in fabbrica e dirigenti aziendali restii ad
osservare le prescrizioni che pure erano state diramate (l’annaffiamento
dei parchi minerari per ridurre le emissioni di polveri sottili), in
modo da non rallentare l’efficacia degli impianti.
Questo il quadro. Soprattutto, un’Agenzia regionale per l’Ambiente,
l’Arpa, sguarnita del necessario personale e con un’organizzazione delle
forze in campo a dir poco paradossale. Siamo nel 2003, l’Agenzia
istituita qualche anno prima è guidata da un direttore generale -
Alfredo Rampino - parente dell’allora governatore Fitto e oggi indagato
in qualità di direttore amministrativo dell’Asl Brindisi per i fatti del
2007. Ebbene, l’Ar pa conta su una pianta organica di 832 unità e non
si capisce perché nella città più industrializzata della Puglia,
Taranto, vi è la sede con minor personale: 30 addetti a fronte 61 in
forza a Bari, dei 55 presenti rispettivamente su Brindisi e Foggia e dei
57 operanti su Lecce. L’Ilva, da 40 anni attiva con 200 camini, era
solo obbligata ad autodichiarare i dati sulle emissioni (con i tetti
altissimi di cui abbiamo già scritto), dunque - a leggere il dossier di
Vendola - almeno sino al 2005 di quei fumi che avvolgono Taranto non si è
mai saputo nulla. Nel 2005 all’Arpa viene data una «sterzata»: arriva
Giorgio Assennato, già a capo del Registro Tumori, istituito nel ‘99
nell’area jonico-salentina e nel corso degli anni successivi esteso a
ciascuna provincia per renderlo regionale.
Ebbene, già ai primi anni di attività di ricerca - pur in assenza di
rilevazioni ufficiali, come detto - Assennato forniva le stime sulle
incidenze tumorali nelle aree considerate a rischio ambientale (Brindisi
e Taranto). Ma dovranno passare un po’ di anni perché arrivino le prime
leggi sulla riduzione delle emissioni (quella del 2009) e, nel 2012,
sulla valutazione del danno sanitario. Soprattutto, ci vorrà l’apertura
di un’inchiesta da parte della Procura per accendere i fari sulla
mortalità a Taranto per inquinamento. «Mi piacerebbe che una Autorità
scientifica e giuridica indipendente potesse fare un’analisi della
legislazione pugliese - ha detto Vendola nell’Au l a consiliare - in
comparazione con le altre legislazioni regionali e con quella
nazionale». Sarebbe utile, ma nessuno potrebbe tornare indietro nel
tempo per sanare tutte le lacune che hanno provocato in Puglia la
mortalità ambientale.lagazzettadelmazzogiorno

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