venerdì 1 novembre 2013

Ilva, ma adesso il rischio è che restino le macerie

TARANTO - A mezzogiorno, una sintesi efficace di quali siano i sentimenti dei cittadini di Taranto all’indomani dell’ennesimo ciclone giudiziario che vede coinvolte ben 53 persone la esprime un gruppo di mamme all’uscita dalla scuola elementare «Grazia Deledda» al rione Tamburi, a poche centinaia di metri dai camini e dai parchi minerari dell’Ilva: «Vuole la verità? Non siamo affatto sorprese. No, questa nuova tempesta che si sta abbattendo su Taranto è tutt’altro che sorprendente. È vero. Stavolta, ad essere finiti sotto la lente d’ingrandimento della magistratura non ci sono soltanto i padroni dell’Ilva e i loro uomini. Stavolta, ci sono anche Nichi Vendola e il sindaco Stefàno, oltre a tante alte personalità del mondo politico. Ma qui ce lo aspettavamo tutti che prima o poi la Procura avrebbe finito per coinvolgere anche i vertici di Comune e Regione Puglia».

A parlare, come al solito, sono solo non più di due mamme. E sulle prime, a dire il vero, anche loro vorrebbero rimanere mute. Ma non per omertà. Semmai, per stanchezza. «Guardi - dice una di loro prima di dar sfogo a tutta la rabbia che ha in corpo - cosa vuole le dica. Le parole... Qui non ne possiamo più di sentire parole e tanto meno promesse che vengono puntualmente disattese. Noi qui ai Tamburi siamo le vittime designate di questa tragedia. E siamo tutti arrabbiati, delusi. Perché siamo consapevoli dei rischi che corriamo e che corrono i nostri figli». La signora si interrompe. E poi va giù come un treno: «Sia chiaro, qui non si è arreso nessuno. Anzi. Noi continueremo a lottare. Lo faremo soprattutto per i nostri figli. E anche insieme ai nostri figli che, per quanto ancora bimbi, sono già sin troppo coscienti di quel che sta accadendo. Continueremo a lottare anche perché siamo convinti che un’alternativa a questa tragedia siano davvero possibile».

«Confidiamo sull’Europa - interviene un’altra mamma - perché finalmente a Bruxelles e a Strasburgo si sono accorti di quel che accade a Taranto. Forse non accadrà domani, ma cominciamo a percepire che qualcosa si sta muovendo. Questo scempio non può durare in eterno. Il destino di questa città non può e non deve essere solo il siderurgico o la raffineria dell’Eni o la Cementir. Noi vogliamo credere che un futuro diverso, un futuro che abbia come presupposto la bonifica del territorio, sia possibile».

Sembra di sentire pari pari, quasi alla lettera, le parole dell’ecologista Alessandro Marescotti, il presidente di Peacelink, l’uomo che a Taranto forse più di ogni altro ha creduto e crede in una possibile e concreta alternativa al sistema industriale cresciuto intorno al gigante d’acciaio.

In queste ore, peraltro, per Marescotti, come per i suoi amici ambientalisti, sarebbe troppo facile farsi vanto e ricordare che la magistratura in fondo ancora una volta sta dando loro ragione. «Io - dice Marescotti alla Gazzetta - da cittadino mi limito ad osservare che Taranto deve essere grata a questi magistrati che contro tutto e tutti hanno saputo mantenere la schiena dritta, senza farsi condizionare da niente e da nessuno».

Eppure, ancora una volta, la sensazione è che dietro l’angolo non vi sia nessuna svolta vera, semmai solo tante macerie: come quelle che si accumulano nell’area perimetrale dell’Ilva, come quelle in forma di capannoni dismessi nella vasta zona industriale, come quelle che rischiano di diventare montagne insormontabili se solo si realizzassero i propositi, ma sarebbe più giusto definirle minacce, che in queste settimane stanno togliendo il sonno ai lavoratori della danese Vestas (al momento sono 127, ma il numero degli operai in mobilità potrebbe salire sino a 700) o della italianissima Marcegaglia (134, tutti ex dipendenti di quello che una volta era uno dei gioielli dell’industria jonica, la Belleli).

Per non parlare dei lavoratori della Tct (Taranto container terminal): l’azienda, controllata dai cinesi di Evergreen, ha già fatto sapere che lascerà il porto se «a stretto giro» non sarà definita la data di inizio dei lavori di ammodernamento dello stesso.

Una vera ecatombe, alla quale (nel territorio della provincia jonica) danno il loro contributo deleterio i già ben noti casi Miroglio e Natuzzi. lagazzettadelmezzogiorno

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